martedì 23 giugno 2009

perché? #1

Perché non si è parlato, a livello nazionale, con enfasi di questa notizia?


COMO (4 Giugno 2009) - Scoperti sul fondo di una valigia 259 titoli di credito Usa per un valore nominale di 134 miliardi di dollari, pari ad oltre 96 miliardi di euro. E' quanto hanno sequestrato alla stazione ferroviaria internazionale di Chiasso, al confine tra Svizzera e Italia, i funzionari doganali e la guardia di finanza, a due cinquantenni giapponesi.

Quell'importo, rispetto agli importi oggetto di quest'altra notizia
è pari al 700% (96/13.7).

Quale era l'origine e quale era la destinazione di quei 96 MILIARDI di €uro?
Dov'è la garanzia della TRACCIABILITA' degli scambi?

Ecco cosa comporta il sostenere e l'attuare delle politiche di liberismo economico-finanziario puro:
come potrebbe intervenire la "mano invisibile" del mercato su sistemi in cui non si ha nemmeno una minima idea delle quantità e qualità di scambi "over the counter"?
Si ricorda che le tipologie di mercati "over the counter" hanno contribuito non poco all'attuale bolla speculativa/crisi globale.

Gli scambi economico-finanziari non possono continuare col non seguire delle strade chiare e trasparenti, tracciate condivise e controllate da Organismi/Enti sovranazionali/nazionali.

referendum e referenda: osservazioni

Dopo l’inevitabile mancato raggiungimento del quorum nel referendum nazionale del 21 giugno 2009 i commenti fuori luogo degli esponenti della classe politica si sprecano:

Fini: il cittadino non crede più allo strumento referendario

Chiti: bene il mancato raggiungimento del quorum

Casini: referendum fallito miseramente e spreco di denaro pubblico

Calderoli: vittoria della Lega

L’unico che dice per ora una cosa condivisibile è D’Alema: “eliminare il quorum”, ma subito viene colto dal panico dei cittadini e la controbilancia con una tutela per la classe politica “innalzare il numero delle firme”.


Invece non è il referendum uno strumento che ha fallito, ma il modo con cui è stato introdotto dalla nostra classe politica in Italia, che non funziona:

1. il quorum del 50% (che non esiste in Francia, Spagna, Gran Bretagna, Irlanda, Svizzera, California) stimola appunto chi governa a fare appello all’astensionismo per boicottare il referendum invalidandolo e così facendo prevalere la sua parte con minima fatica contando gli astenuti come voti NO.

2. Berlusconi ha sabotato la partecipazione al referendum mettendolo 2 settimane dopo il voto delle europee in una domenica estiva. Negli altri stati europei e in USA al contrario, per stimolare la partecipazione fanno appositamente l’abbinamento elezioni - referendum.

3. in Italia esiste solo il referendum per abrogare una legge già entrata in vigore. In Svizzera e in Baviera esiste invece il referendum opzionale o confermativo, che funziona così: ogni volta che il parlamento pubblica una legge, c’è un periodo di 100 giorni in cui i cittadini contrari possono raccogliere 50.000 firme (1% degli aventi diritto al voto). Se riescono nell’impresa, nella prima data utile riservata ai referendum (ci sono 3-4 domeniche all’anno già prefissate per i referendum) i cittadini sono chiamati al voto, se i cittadini dicono di SI la legge entra subito in vigore, altrimenti non entra in vigore.

4. poi esiste in Svizzera, Baviera e California anche la possibilità di proporre qualcosa tramite referendum, e questo strumento viene chiamato Iniziativa (in Italia, Referendum Propositivo). Con esso i cittadini previa raccolta di 100.000 firme (2 % degli aventi diritto) possono chiedere ai loro concittadini se vogliono introdurre una nuova norma. Se alla votazione la maggioranza dice SI, essa viene introdotta. Senza modifiche. Inoltre è possibile mettere a referendum un quesito semplice e lasciare che venga poi normato dal parlamento, oppure una legge completa di articoli e commi.


Se questi due strumenti, che dove esistono in Svizzera, in California non hanno il quorum e in Baviera dal 10 al 15%, esistessero in Italia, cosa sarebbe successo nel caso della legge elettorale “porcata”?

1. appena Calderoli avesse pubblicato la legge, i cittadini avrebbero raccolto le firme per il referendum opzionale, e la legge sarebbe stata promulgata solo se i cittadini l’avessero approvata. Il tutto in 100 giorni per le firme - un paio di mesi per il referendum, in 5 mesi tutto sarebbe stato deciso. Tempi rapidi e soluzioni condivise. Inverno - Primavera 2006 la legge “porcata” era stata promulgata, entro estate i cittadini avrebbero potuto dire SI oppure NO.

2. se i cittadini avessero accettato la legge porcata nel 2006 quando era stata “creata”, per i più disparati motivi (colpo di sole collettivo, influenza cerebrale, mancanza di informazione vera, mancanza di opposizione, convergenza di interessi di tutti i partiti più grossi PD e PDL) e avessero ritenuto che la legge “porcata” era da cambiare solamente 3 anni dopo, ossia oggi nel 2009, e avessero avuto gli strumenti Svizzeri, Californiani e Bavaresi, avrebbero potuto iniziare la raccolta firme per l’Iniziativa (Referendum Propositivo) per una nuova legge elettorale. L’avrebbero messa al voto di tutti i cittadini e poiché non esiste il quorum, chi fosse andato al voto avrebbe deciso.

La nostra democrazia italiana è una democrazia bloccata, formale, apparente, dove poche persone decidono per 60 milioni. Per trasformarla in democrazia vera, dobbiamo noi cittadini esigere che venga tolto il quorum, che venga introdotto il referendum opzionale e il referendum propositivo. E lo potremo esigere quando in molti sapremo che questi strumenti esistono, ad esempio a pochi chilometri dal nostro confine.

A Rovereto (TN) ci stiamo impegnando da 2 anni per questo motivo: togliere il quorum dai referendum comunali. L’11 ottobre 2009 i cittadini roveretani saranno chiamati alle urne per dire SI ed eliminare il quorum.
http://www.cittadinirovereto.it/diario/i-quattro-quesiti-referendari/

Paolo Michelotto - 23 Giugno 2009


Osservazioni personali

A. Cosa succederebbe se nel nostro Comune si iniziasse a costruire un edificio delle Responsabilità?
Sicuramente si produrrebbero quesiti/responsabilità di questo tipo:


REFERENDUM DAY ROVERETO

1. Referendum Propositivo per la determinazione del quorum di validità dei referendum comunali: Vuoi che le consultazioni referendarie siano valide qualsiasi sia il numero di elettori che vi prendono parte?

2. Referendum Propositivo per realizzare il Piano Regolatore Generale Comunale con la partecipazione dei cittadini: Vuoi che il Piano Regolatore Comunale di Rovereto, che stabilirà il futuro della città e dei suoi abitanti (personae), quanti spazi assegnare al verde pubblico, alle aree edificabili, alle aree commerciali, artigianali e industriali, alle aree coltivabili, ai servizi per la popolazione, venga progettato nel corso del 2009 coinvolgendo i cittadini con un percorso partecipativo coordinato da un esperto qualificato del settore, riconosciuto a livello nazionale?

3. Referendum propositivo per la Riqualificazione Piazzale Ex-Stazione Corriere: Vuoi che la riqualificazione dell’edificio ex stazione corriere e relativa piazza venga progettata coinvolgendo i cittadini con un percorso partecipativo coordinato da un esperto qualificato del settore, riconosciuto a livello nazionale?

4. Referendum per non consentire l’apertura del nuovo inceneritore della Sandoz:
Vuoi che il comune esprima parere negativo alle richieste di Sandoz spa e di qualsiasi altra azienda per la realizzazione, sul territorio comunale, di impianti che aggravino l’attuale grado di inquinamento atmosferico con le loro emissioni?

B. Perché ogni giorno si fa ricorso a strumenti telematici per operazioni legate alla banca ed alla moneta (pagamenti, riscossioni, bonifici, trasferimenti,...),
inserendo anche fino a 3-4 password per una stessa operazione, e nessuno parla mai di rischi sulla sicurezza?
Perché i rischi sulla sicurezza escono fuori quando si parla di opportunità del VOTO telematico?
Non oso immaginare quanti soldi si risparmierebbero per le elezioni (attualmente simbolo di diseconomie folli), anche nell'ipotesi di start-up, ovvero di copertura telematica del voto per coloro che, in via sperimentale, ne usufruirebbero da casa, con relativo effetto moltiplicatore sul numero di scrutatori e di schede (= COSTI) che si ridurrebbe in virtù del minor numero di elettori presenti fisicamente nelle sezioni; le economie di scala tenderebbero poi ad aumentare con l'estensione dello strumento di voto telematico a parti via via crescenti di elettorato.

E che dire delle due tipologie di astensionismo (necessario e di forza maggiore)?
Sia l'astensionismo necessario (legato all'essere fuori sede, all'estero, per l'università, per il lavoro,...e il cui peso percentuale è stimato essere intorno al 10%) sia l'astensionismo di forza maggiore (salute, problemi fisici e/o di deambulazione,...e il cui peso percentuale è stimato essere intorno al 3%) verrebbero ridimensionati di non poco, se non azzerati nel medio periodo.

L'impressione è che tutto ciò che ruoti intorno al concetto di banca e di interessi (commissioni, oneri accessori, tassi,...) non trovi mai opposizioni: tutto e tutti si muovono e si adoperano per il bene degli scambi (monetari), anche e soprattutto utilizzando i nuovi strumenti telematici resi disponibili dall'attuale curva socio-tecnologica.
E guai a parlare della possibilità di integrare l'attuale curva socio-tecnologica (vd. strumento del voto telematico, newsletters, blog community,...) con la curva socio-politica: perché politica e tecnologia devono essere viste a priori come una dicotomia del concetto democratico di benessere sociale?

L'interazione (e le sovrapposizioni) di tali due curve è inevitabile (ed è oggi necessaria) per l'avanzamento sulla curva più ampia del benessere sociale.

Non metabolizzare questo concetto/necessità di base è un errore equipollente, per gli amanti del laissez-faire di scuola anglo-sassone, a situazioni rischiose di "miopia di marketing".

mercoledì 17 giugno 2009

tool n° 3: sistema giudiziario "in sequenza"


La ricerca
La sfida ai giudici-lumaca «Ridurre i tempi di un terzo»
Studio sul lavoro dei magistrati nei tribunali di Milano e Torino. La soluzione? Una causa alla volta


Certo che le risorse manca­no, ovvio che l’arretrato za­vorra i giudici, vero che con­tano anche tipo e numero delle nuove cause che si abbattono sui Tribunali: ma i giudici, almeno quelli del civile in alcune materie come il diritto del lavoro, già solo con una diversa organizzazione po­trebbero ridurre i tempi delle cau­se civili fin del 30%. E questo a pari­tà delle attuali condizioni di impe­gno (cioè di numero di udienze), di risorse materiali, di arretrato di partenza, e di sopravvenuti carichi di lavoro simili per quantità e qua­lità.


Miracolo? No, sostengono gli economisti Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico. A patto che i giudici lavorino «in sequen­za », cioè su pochi processi contem­poraneamente e cercando di con­cluderli in poco tempo dopo l’udienza iniziale prima di aprirne di nuovi: l’osservazione di chi lavo­ra così, mostra che questi giudici riescono ad esaurire (rispetto ai giudici che lavorano invece «in pa­rallelo » su molti più processi con­temporaneamente) un maggior numero di casi per unità di tempo, fanno durare meno le cause, e quindi riducono l’arretrato.
Il trio di economisti dell’Europe­an University Institute, dell’Univer­sità di Bologna, e della New York University, sottopone questa con­clusione all’esito di uno studio sul­le Sezioni lavoro dei Tribunali di Milano (52.850 procedimenti asse­gnati a 31 giudici in servizio nel 2000-2005) e di Torino (11.111 ca­si a 14 giudici nel 2005): uffici non proprio nella media italiana, essen­do «isole felici» nel disastrato pa­norama nazionale, ma scelti come laboratori di un esperimento qua­si in vitro per la loro rara confron­tabilità statistica. La ricerca, che verrà presentata domani in un seminario sull’orga­nizzazione giudiziaria promosso, col patrocinio della Camera, da ma­gistrati e avvocati a Vicoforte (Cu­neo) sotto l’impulso del giudice Maria Eugenia Oggero, prende le mosse da una domanda accecante nelle statistiche: come mai i giudi­ci di Torino ricevono 261 casi a te­sta e li chiudono in 174 giorni di media, e invece i giudici di Milano incamerano parecchie cause di me­no (in media 169 a testa) ma impie­gano molto più tempo (324 gior­ni) a definirli?
E non basta. Enormi differenze di produttività si misurano persi­no tra giudici del medesimo uffi­cio. A Milano il giudice Lento (cioè il più lento) ha ricevuto in media 122 nuovi casi a trimestre e li ha esauriti mediamente in 438 giorni, mentre il giudice Veloce (il più ve­loce), pur avendo ricevuto media­mente 20 casi in più in ogni trime­stre, è riuscito ad esaurire i suoi processi in soli 189 giorni: perché? E come mai a Torino il giudice Ve­loce esaurisce una causa in 73 gior­ni contro i 230 giorni impiegati dal giudice Lento?
L’osservazione centrale nello studio degli economisti è che il giudice Lento, quello i cui processi milanesi durano 438 giorni, tiene attive (cioè aperte sul suo tavolo) mediamente 337 cause alle quali ha già dedicato energie almeno per la prima udienza. Invece il giu­dice Veloce, i cui processi durano solo 189 giorni, tiene contempora­neamente attive soltanto 135 cau­se in media.
Per Ichino, è il segno che «i giu­dici i cui processi durano meno so­no anche quelli che tengono meno casi attivi»: sono cioè come quei «cuochi che tengono meno pento­le contemporaneamente sul fuo­co », e che nonostante questo, anzi proprio per questo, riescono così a «cucinare un numero maggiore di pasti per unità di tempo». Lo dimo­strano i numeri: il giudice Veloce, lavorando in sequenza, smaltisce 134 cause a trimestre contro i 76 casi esauriti in parallelo dal giudi­ce Lento, sebbene questi parados­salmente lavori di più, cioè faccia 5 udienze al giorno contro le 3,7 del collega Veloce.
Il recupero di produttività non sarebbe da poco. Il metodo «se­quenziale », sul campione esamina­to, farebbe risparmiare addirittura «3 mesi su 9», cioè il 30% di dura­ta, risultato altrimenti raggiungibi­le dal lavoro «in parallelo» soltan­to a prezzo di «90 udienze in più rispetto alle attuali 390 per trime­stre ».


Ma così non finirebbero per pa­gare il conto quei cittadini le cui cause fossero messe in coda alla se­quenza? No. «Le parti devono at­tendere relativamente di più per la prima udienza a Torino», dove si lavora in sequenza: «Ma il loro pro­cesso, una volta aperto, viene chiu­so molto piu in fretta consentendo una durata totale media inferiore e un numero di esauriti per trime­stre superiore, e questo anche se a Torino i casi sopravvenuti sono di più e le pendenze sono pari a Mila­no ».
Per il trio di economisti, c’è una logica in questi risultati. A e B, spiegano, sono due cause che per essere definite hanno entrambe bi­sogno di 100 giorni. Se il giudice lavora in parallelo, ossia nei giorni dispari fa il processo A e nei giorni pari fa il processo B, impiegherà 199 giorni per esaurire il caso A e 200 per il caso B: dunque la durata totale media dei due casi sarà di 199,5 giorni. Ma se lavora in modo sequenziale, ossia prima fa unica­mente il processo A e poi comincia il processo B ma solo dopo aver esaurito A, quest’ultimo durerà 100 giorni mentre il caso B durerà 200 giorni: dunque la durata me­dia sarà 150 giorni. Ichino rimarca che, lavorando sequenzialmente, il giudice consu­ma per esaurire il caso B (parcheg­giato in attesa nei primi 100 giorni e trattato solo nei successivi 100) lo stesso tempo che impieghereb­be lavorando in parallelo, ma per il caso A gli basta la metà del tem­po che sarebbe stato necessario nel lavoro in parallelo: quindi «con il metodo sequenziale nes­sun processo dura di più, ma tutti (tranne uno) durano di meno».

Restano, nel modello teorico, al­cune zeppe. La principale è che, nella realtà dei Tribunali, i giudici devono rispettare tutta una serie di tempi tecnici imposti dalla leg­ge, che impediscono un lavoro se­quenziale «puro» tra due trattazio­ni consecutive di una stessa causa. L’altro corposo dubbio è che i giudici più rapidi possano magari essere quelli più sciatti, e che la lo­ro velocità corrisponda a una mi­nor qualità delle sentenze. Per dira­darlo, gli economisti valorizzano il parametro della percentuale di ri­corsi in appello contro le sentenze, rimarcando come proprio i giudici «sequenziali» più veloci siano an­che quelli le cui sentenze vengono meno impugnate: ma in questo modo mostrano di considerare l’appello come indicatore di per sè di una sentenza imperfetta, men­tre spesso è soltanto una strategia della parte soccombente, a prescin­dere dalla fondatezza o meno della tesi non accolta dalla sentenza.


21 maggio 2009 - Luigi Ferrarella

ALTRO ESEMPIO con 4 cause:

Causa A

-tempo previsto- 5 giorni; In Parallelo: 17 giorni; In Sequenza: 5 giorni

Causa B

- t prev - 10 giorni; In Parallelo: 33 giorni; In Sequenza: 15 giorni

Causa C

- t prev - 15 giorni; In Parallelo: 44 giorni; In Sequenza: 30 giorni

Causa D

- t prev - 20 giorni; In Parallelo: 50 giorni; In Sequenza: 50 giorni

Ricapitolando,

con il metodo "sequenziale" nessun processo dura di più.

E tutti i processi, tranne l'ultimo, durano di meno.

Osservazioni personali - Effetto Moltiplicatore di Benessere

Immaginiamo che tale tecnica di lavoro "in sequenza" venga applicata nella maggior parte dei Tribunali del nostro paese.

Si verrebbero a generare in modo naturale e spontaneo delle richieste, delle esigenze di intervento, chiarezza, compattezza del quadro normativo-legislativo da parte del sistema giudiziario, al fine non solo di rispettare ma anche e soprattutto di migliorare il lavoro sequenziale nei procedimenti degli stessi giudici. E che dire del beneficio per le personae?

Una sorta di spinta/pressione dei giudici (e delle personae) sui legislatori:

- per porre in essere (strumenti di) leggi in grado di migliorare il rendimento dei giudici stessi e i benefici per le personae;

- per ridurre al minimo l'attuale complessità dell'apparato di leggi prodotte dai legislatori.

Complessità ( = inefficienze!) che a volte "sembrano" mantenute tali più per mala fede che per noncuranza/incapacità da parte dei legislatori stessi.

Faccio notare che:

La giustizia civile costa oltre 2 miliardi e 200 milioni l' anno alle aziende italiane. Quanto una manovra finanziaria: è la stima dell' Ufficio Studi della Confartigianato, come riportato in questi link

link uno

link due

sabato 13 giugno 2009

tool n° 2: equilibrio e trasparenza nei margini di filiera

Immaginiamo di recarci in un negozio a caso, settore abbigliamento-calzaturiero. Su ogni etichetta degli articoli in vendita si legge la percentuale del margine ripartita tra i soggetti dell'intera filiera produttiva.

Si prende un capo a caso, prezzo di vendita 100€, con la seguente ripartizione:

5% tessutaio X paese x, 2,5% manufatturiere Y paese y (distinguendo chi, dove ed in che percentuale l'eventuale probabile sotto-ripartizione produttiva e manufatturiera), 89% ideatore-gestore brand-marchio W paese w, 3,5% canali distributivi Z1 Z2 paese z1 z2 (dettagliante finale incluso a parte?!?).

Ed immaginiamo che questa tracciabilità di filiera sia imposta per legge, in virtù non solo di un intervento forte e/o di un recepimento concreto a livello nazionale/regionale federalista, ma soprattutto per merito di seri accordi e severe normative comunitarie aventi come ratio di base: l'omogeneità degli standards qualitativi tra i paesi membri della comunità stessa ("ratio" che dovrebbe essere la chiave nelle analisi e nelle implementazioni dei presupposti, degli obiettivi e delle vere politiche di integrazione e partecipazione comunitaria)

Tale trasparenza immaginiamo di leggerla, di "sentirla" e di trovarla anche in tutti gli altri nostri negozi delle varie tipologie merceologiche.

Facile intuire le potenzialità di tale approccio: in ottica fiscale, della qualità lavorativa e reddituale, del benessere... ovvero in chiave responsabilità personale e sociale: le personae hanno (e al CONTEMPO sono) gli indicatori di base necessari per porre in essere comportamenti di domanda (e al CONTEMPO di offerta) responsabili, e sempre le personae hanno e sono i generatori/alimentatori di puri moltiplicatori logaritmici del benessere stesso (sia personale sia sociale).


Passiamo alla realtà.

Evitando di affrontare la filiera dell'oro nero (petrolio, cui rimando qui), perché non indicare, sulle etichette dei prodotti della filiera alimentare, 17, 23 e 60 accanto alle relative provenienze-certificazioni socio-geografiche?


I costi degli alimentari? Corrono il doppio dell'inflazione. Dati Coldiretti, Istat e Ismea

Mangiare humanum est? Mah. Un significativo bollettino statistico è appena stato trasmesso da Coldiretti, su base ISTAT : i prezzi degli alimentari sono raddoppiati ad aprile, in relazione all'inflazione. Con aumento del 2,7 %, piu’ del doppio appunto del valore medio dell'inflazione (+1,2%).

Risultato di inefficienze e di speculazioni - sostiene Codiretti - che sono costati alle tasche degli italiani 250 milioni di euro in un solo mese.

Il tasso di aumento non è certamente giustificato dai costi delle materie prime che, nello stesso periodo, registrano listini in forte calo dell’11% , vedi Ismea.

Proseguendo, noi italiani spendiamo 205 miliardi all'anno in alimenti e bevande (141 miliardi in famiglia e 64 fuori): rappresentano il 19% della spesa familiare.


In generale, per ogni euro speso dai consumatori in alimenti ben 60 centesimi vanno alla distribuzione commerciale, 23 all'industria alimentare e solo 17 centesimi agli agricoltori. I prezzi - rileva ancora Coldiretti - aumentano quindi in media quasi cinque volte dal campo alla tavola e esistono dunque ampi margini da recuperare, con piu' efficienza, concorrenza e trasparenza, per garantire acquisti convenienti alle famiglie e sostenere il reddito degli agricoltori in un momento di difficoltà economica.


15/05/2009 - Marina Martorana

venerdì 12 giugno 2009

tool n°1bis: welfare aziendale

Luxottica e i rischi dell' azienda-mamma


Durante gli anni Sessanta, nelle scuole di Ivrea moltissimi studenti erano chiamati «figli dell' Olivetti». I genitori lavoravano per la grande fabbrica di macchine da scrivere e i loro figli, appunto, avevano accesso ad una vasta gamma di benefici aziendali: colonie estive, attività sportive e culturali, ambulatori medici, premi di studio, bellissimi regali di Natale. Come è noto, l' Olivetti fu un' impresa d' avanguardia sul fronte della «responsabilità sociale» verso dipendenti e territorio. Quella tradizione si è un po' perduta nei decenni successivi ma sta ora lentamente riaffiorando in altre regioni, anche a seguito di un nuovo clima di relazioni industriali e alle sfide poste della crisi economica. Il segnale più recente ed emblematico viene da Agordo. Il Gruppo Luxottica ha appena raggiunto un accordo con i sindacati per l' introduzione di un nuovo sistema di «incentivi non monetari» ai propri dipendenti. Operai e impiegati riceveranno sconti per comprare beni di uso primario e abbonamenti sui mezzi di trasporto. E soprattutto avranno accesso a una rete dedicata di prestazioni sociali in convenzione: servizi sanitari (come cure dentistiche e accertamenti diagnostici), assistenza personalizzata (ad esempio aiuti domiciliari per la non autosufficienza), programmi educativi (borse di studio, corsi di formazione e così via). L' obiettivo è triplice: mettere a disposizione un sistema di «welfare occupazionale» che colmi le lacune pubbliche; sostenere il potere d' acquisto in tempi di crisi; promuovere le opportunità dei giovani (principalmente i «figli della Luxottica») e le loro chance di mobilità sociale. L' accordo di Agordo ha ricevuto molti commenti positivi, sia per il metodo (sindacalismo e relazioni industriali pragmatiche e responsabili) sia per i contenuti (forme innovative di sostegno alle famiglie e di solidarietà locale). In linea generale, l' apprezzamento appare giustificato ed empiricamente fondato. Negli altri Paesi il welfare occupazionale è più sviluppato che in Italia. Secondo stime Ocse, le prestazioni «non obbligatorie» erogate dalle imprese rappresentano circa il 14% della spesa sociale complessiva in Gran Bretagna, circa il 7% in Francia, Germania e Svezia e meno dell' 1% in Italia. Vi sono dunque ritardi da recuperare e ampi margini da sfruttare per questo comparto, la cui crescita può portare indubbi benefici: dall' alleggerimento della pressione sul bilancio pubblico al rafforzamento dei legami fra imprese e territori, dalla fidelizzazione dei dipendenti fino alla promozione di quella nuova economia mista dei servizi (soprattutto servizi alle famiglie) che non è ancora seriamente decollata nel nostro Paese, con effetti negativi sull' occupazione femminile e più in generale sull' eguaglianza di genere. Vi sono però almeno due caveat (attenzioni) da considerare. Il primo riguarda le implicazioni distributive del modello Luxottica. Per sua natura il welfare occupazionale accentua la segmentazione del mercato del lavoro, il divario fra chi sta dentro (in questo caso i lavoratori coperti dall' accordo e i loro familiari) e chi sta fuori. Già mezzo secolo fa i padri nobili dello Stato sociale europeo (ad esempio Beveridge o Titmuss) misero in guardia contro questo rischio, suggerendo di contenere entro limiti ragionevoli sia il welfare fiscale (esenzioni, deduzioni, detrazioni) sia quello, appunto, occupazionale. Rispetto al welfare pubblico, entrambi tendono infatti a favorire il ceto medio e ad escludere i più poveri. Il secondo caveat è di natura politica. Se i ceti medi si abituano ad avere prestazioni sociali dedicate (e presumibilmente di elevata qualità) prima che lo Stato sociale abbia consolidato una rete omogenea e decente di servizi per tutti, la costruzione di questa rete diventerà sempre più difficile. L' esperienza americana è lì a dimostrarlo, soprattutto in campo sanitario. Nei Paesi europei dove il welfare occupazionale è più ampio esiste da tempo un pavimento di protezioni omogenee. I rischi denunciati da Beveridge e Titmuss sono ancora presenti, ma le diseguaglianze nell' accesso alle prestazioni in caso di bisogno sono abbastanza contenute. Ben diversa la situazione italiana. Sanità a parte, il nostro Paese registra ancora enormi buchi (e enormi disparità territoriali) nel campo dei servizi o della lotta alla povertà. Il modello Luxottica (così come molte altre esperienze in corso di protezione sociale su base contrattuale o locale) apre una strada promettente di innovazione, ma il welfare occupazionale deve porsi come complemento e non come sostituto del welfare pubblico. Altrimenti rafforzeremo la sindrome dei «figli di»: la mobilità sociale riguarderà solo chi nasce da genitori insider, mentre agli outsider resterà sbarrato l' accesso ad alcune tipologie di servizi. Come diceva Titmusss, se il welfare pubblico si rivolge solo ai poveri, diventa presto un welfare povero, sia in termini di risorse che di qualità.



14 febbraio 2009 - Ferrera Maurizio

tool n°1: welfare aziendale

Il carrello della spesa di Luxottica Pasta, olio e caffè ai dipendenti

L'accordo per un welfare aziendale: 110 euro in beni alimentari. Il benefit non monetario costa meno


AGORDO (Belluno) — I primi carrelli della spesa gratuiti per quasi 8 mila dipendenti Luxottica saranno ritirati nei prossimi giorni nei punti vendita della Coop Trentino. Pasta, olio, caffè, parmigiano ed altri prodotti alimentari tutti di marca (il sindacato ha chiesto e ottenuto che ci fosse anche la Nutella) per un valore di 110 euro. È solo l'inizio. In autunno l'azienda fornirà gratis ai figli dei suoi impiegati ed operai i libri di scuola. E poi borse di studio, asili nido, corsi di lingue e persino servizi di medicina specialistica. Si potrà andare dal dentista, dal ginecologo e dal pediatra con un voucher dell'azienda. E Luxottica si propone anche di «promuovere la mobilità sociale dei figli dei dipendenti». Questa storia che a prima vista potrebbe avere dell'incredibile è iniziata due anni fa. C'era preoccupazione tra gli imprenditori sulla perdita di potere d'acquisto dei dipendenti e alcuni decisero di elargire unilateralmente ad impiegati ed operai gratifiche una tantum.
WELFARE AZIENDALE - Anche Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, legatissimo ai destini di Agordo e dintorni, pensò che bisognasse fare qualcosa per allontanare la sindrome della quarta settimana e fu tentato anche lui dall'ipotesi dell'una tantum. I responsabili delle risorse umane e relazioni industriali, Nicola Pelà e Piergiorgio Angeli, lo convinsero che la via da percorrere era un'altra, meno paternalista e più moderna. Costruire di comune accordo con il sindacato un welfare aziendale e legarlo a precisi obiettivi di incremento della qualità in fabbrica. Nacque così un esperimento che sta partendo in questi giorni e che è sicuramente destinato ad animare la discussione oltre che a far scuola. Pelà, manager di scuola olivettiana, ci vede una continuità con la cultura socio-comunitaria di Adriano, i dirigenti sindacali della Cgil come Giuseppe Colferai parlano di qualcosa che ricorda le società di mutuo soccorso di fine Ottocento, il segretario della Uil Paolo Dalan lo considera un antipasto della cogestione. Modelli a parte, nel distretto bellunese degli occhiali tra impresa e sindacati si parla ormai una lingua comune, siamo anni luce davanti alla realtà nazionale. Se non si è arrivati a quella «complicità» che il ministro Maurizio Sacconi auspica e che fa rabbrividire i cigiellini di Roma, si è creato comunque un clima di profonda collaborazione e l'ultimo sciopero risale al 2006. Agli occhi dei sindacalisti veneti — a qualsiasi sigla appartengano — Del Vecchio ha innanzitutto un grande pregio: aver delocalizzato il minimo possibile (due fabbriche in Cina) ed aver anche di recente deciso di realizzare il centro unico per la logistica di gruppo a Serico, nel Bellunese. Non in America come avrebbe potuto.
IL PROGETTO - Ma come funziona il programma welfare targato Luxottica? L'obiettivo è integrare il salario con una serie di benefit non monetari. Se il gruppo mettesse in busta paga 100 euro in più, ai suoi dipendenti ne arriverebbero solo 50 per effetto del maledetto cuneo fiscale. Se invece regala loro un carrello della spesa da 110 euro le tute blu ne risparmiano altrettanti ma all'azienda l'operazione costa molto meno, perché usando il suo potere contrattuale riesce ad ottenere un maxi-sconto dai fornitori. In più visto che la spesa si fa alla Coop Trentino e non da Auchan o Carrefour contribuisce a tener su l'economia del territorio. Si obietterà, ma non è che questo nuovo welfare è costruito sull'italianissima elusione fiscale? No, rispondono in Luxottica e tirano fuori l'articolo 51 del Testo unico delle imposte sui redditi che prevede l'esenzione dalla tassazione per beni e servizi fino a 258 euro. «È tutto regolare — spiega Pelà —. I nostri benefit diventano la terza gamba della retribuzione, una gamba complementare allo stipendio e ai sistemi di incentivazione monetaria tradizionali come quelli previsti per gli straordinari». Anche i benefit nel campo dell'istruzione e della sanità «non sono alternativi al welfare pubblico, noi ci limitiamo a trasferire potere d'acquisto in quelle aree in cui lo Stato non offre un servizio soddisfacente». E proprio il carattere aggiuntivo dei benefit ha tranquillizzato i sindacati, in particolare la Cgil che inizialmente aveva temuto uno scardinamento della contrattazione. E ha entusiasmato i cislini che, come conferma il dirigente locale Rudi Roffarè, ne hanno discusso anche nel loro congresso nazionale. In realtà i manager Luxottica non hanno nessuna intenzione di azzerare il sindacato. Anzi. Lo considerano uno stakeholder così come il fondo americano Harris Associates che pure detiene circa il 2% delle azioni del gruppo o le comunità dell'Agordino che ospitano i loro stabilimenti.
«MULTINAZIONALE DI TERRITORIO» - «Può sembrare un ossimoro, ma noi ci consideriamo una multinazionale di territorio», sottolinea Angeli, direttore delle relazioni industriali. I numeri stanno a dimostrarlo: Del Vecchio fa il 65% del fatturato negli States ma il 65% della produzione è realizzato in Italia. Quest'anno causa recessione e calo delle vendite americane ha dovuto fare per la prima volta quattro giorni di cassa integrazione ma nessuno gliene ha fatto una colpa. La crisi c'è per tutti. Nel Bellunese — considerato la Torino del Nordest per la prevalenza della grande impresa rispetto alla piccola — per la prima volta il tasso di disoccupazione è arrivato a quota 6% e il principale concorrente di Del Vecchio, la Safilo, ha mollato la presa ed è alla disperata ricerca di un compratore. Nelle fabbriche Luxottica la paga media è di 1.200 euro nette al mese, la sindacalizzazione non è elevatissima (si ferma attorno al 20%), la Cgil è più forte delle altre confederazioni ma c'è tra gli operai, specie quelli più anziani, un senso di appartenenza molto forte. Per tutti Del Vecchio è sempre «il nonno» e molti quando tornano la sera a casa in pullman indossano ancora il camice con la scritta Luxottica. Nel bilancio 2009 del gruppo il programma welfare sarà spesato per 2,7 milioni che andranno sotto la voce costo del personale, ma avverte Angeli «non è qualcosa che concediamo graziosamente, proprio per evitare qualsiasi atteggiamento paternalistico vecchio stampo il welfare è parte di uno scambio». Chi produce occhiali in Italia o altrove ha un disperato bisogno di qualità perché in questa particolarissima industria, in cui gli italiani sono leader mondiali, l'automazione non può andare oltre il 15% del ciclo produttivo. C'è quindi bisogno di tanta manodopera, molto flessibile per adattarsi all'estrema varietà dei modelli in produzione e con capacità che rasentano quelle di un artigiano. Il protocollo sul welfare che porta le firme di Cgil, Cisl e Uil recita che «le risorse economiche da destinare a finanziare gli interventi, pur auspicabilmente costanti nel tempo saranno collegate anche a indicatori di performance aziendale», che dovranno essere individuati di comune accordo perché tutto il programma fa comunque capo a un comitato di governance rigidamente paritetico tra azienda e sindacati. A sentire i manager Luxottica i 2,7 milioni investiti saranno ripagati dalla riduzione degli accantonamenti di bilancio per gli scarti e dal miglioramento della qualità degli occhiali che escono da Agordo e dalle altre fabbriche. Se tutto andrà così lo scambio si rivelerà virtuoso, il programma di welfare sarà replicato, il sindacato avrà trovato nuovi spazi di legittimazione e, soprattutto, il confronto con la produttività delle fabbriche «sorelle» dislocate in Cina apparirà meno squilibrato.


08 giugno 2009 - Dario Di Vico

giovedì 11 giugno 2009

presentazione

Parte il progetto "quaderno sociale",
aperto a tutti coloro che amano e si adoperano per il benessere: proprio e di chi ci sta intorno.



principi base

- l'evoluzione nel benessere della persona e della società si basa sull'evoluzione dell'etica
- etica significa sia "appartenersi" (aspetto personale) sia "appartenere a" (aspetto sociale)
- l'etica è l'elemento portante della tetràgona costruzione chiamata "responsabilità"
- non esiste libertà senza responsabilità (personale e sociale)
- la vita è libertà, ovvero manifestazione del libero arbitrio all'interno della costruzione "responsabilità"
- la responsabilità (personale e sociale) è l'unico veicolo che permette ai diritti individuali di identificarsi ed appaiarsi con i diritti assoluti



soggetti base

personae = coloro che sono al CONTEMPO responsabili della propria vita e di quella degli altri, impegnati nella propria realizzazione ma al CONTEMPO inseriti, debitori nei confronti della comunità-società

aristos = il/la migliore, chi persegue un fine etico tale da elevarlo ben al di sopra delle "attuali" regole sociali, intento a non cercare le scappatoie legali che non lo espongano alla condanna sociale, ma spinto da un rigore intellettuale, pragmatico ed etico che trascende le "attuali" regole sociali



obiettivi

1) costruire, condividere, distribuire, consolidare, migliorare: responsabilità (personali e sociale)

2) costruire, condividere, distribuire, consolidare, migliorare: strumenti (tools) per l'obiettivo 1)

3) porre le basi per una democrazia diretta delle personae

4) inserire responsabilità alle prossime elezioni nel Comune di appartenenza delle personae
al fine degli obiettivi 1), 2), 3)

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ispirazioni

Adriano Olivetti
Pietro Condemi
Paolo Michelotto
Guido Rossi

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